Defibrillatori, la legge obbliga i club sportivi. Ma la Corte dei Conti la blocca.
Il decreto Balduzzi è stato varato nella primavera 2012, ma il provvedimento è stato fermato dai magistrati contabili. Allarme dopo un'indagine Assotutela: "Solo il 4% delle società possiede il dispositivo"
di Fabio Abati
Sarà ritardata la discesa in campo dei defibrillatori. La norma di legge che ne rendeva obbligatorio il possesso da parte di ogni società sportiva entro il 2015, è infatti “ferma” alla Corte dei conti. Le 120mila società sportive dilettantistiche italiane tirano così un sospiro di sollievo, anche perché da una recente indagine di Assotutela,
solo il 4 per cento di queste risulta già in possesso di un
defibrillatore, mentre sono ancora meno quelle dotate di personale in
grado di utilizzarlo. Il rischio, quindi, è di avere un’apparecchiatura
salvavita ferma a prender polvere.
Fatto sta che la presenza in
prossimità dello svolgimento di qualsiasi competizione sportiva di un
defibrillatore portatile (detto anche Bld) utile a salvare vite umane in
caso di arresto cardiaco, doveva essere resa obbligatoria per legge. Lo
avrebbe stabilito l’articolo 7 comma 11 del cosiddetto decreto Balduzzi,
varato il 26 aprile 2012. Ma il provvedimento è “fermo” alla Corte dei
conti, per cui non esiste ancora una data certa relativa alla sua
pubblicazione in Gazzetta ufficiale.
Secondo la
legge, le società sportive dilettantistiche e quelle professionistiche,
“tranne quelle che svolgono attività a ridotto impegno
cardiocircolatorio”, dovevano dotarsi di defibrillatori semiautomatici,
le prime entro ottobre 2013, le seconde entro ottobre 2015, con oneri a
loro carico. Dal ministero della Salute confermano però che la “Corte
dei conti ha posto dei rilievi”. “Ma la risposta ai quesiti sollevati –
aggiungono – è stata trasmessa e stando alle risultanze dei tecnici non
dovrebbero esserci ostacoli all’entrata in vigore della norma”. Il Coni
s’è affrettato ad inviare una lettera a tutte le società sportive
ricordando che il decreto Balduzzi non è stato ancora pubblicato e ha
chiarito che non esiste alcun obbligo da ottemperare, visto che la legge
non risulta effettivamente in vigore. A questo punto è cresciuta la
confusione in materia.
Sul sito della Federazione italiana tennis,
per esempio, fa bella mostra di sé un post dal titolo: “Obbligo di
defibrillatori. Emanato il decreto che riguarda le società affiliate”, e
sulla terra rossa è già allarme. Infatti, i costi per dotarsi di un
defibrillatore non sono poca cosa. Un apparecchio, in media, costa dai
2500 ai 3 mila euro; ma a questa cifra va aggiunta quella per avere un
operatore in grado di utilizzare questo tipo di presidio. Anche qui, i
corsi di formazione in strutture accreditare private possono costare un migliaio di euro circa ad operatore, anche se ne esistono di gratuiti organizzati dalle Asl, sedi di associazioni di volontariato o della Croce Rossa.
Gianni Petrucci, quando era ancora presidente del Coni scrisse una lettera all’allora ministro della salute Renato Balduzzi con
la quale, pur apprezzando le finalità del provvedimento, chiese un
giusto equilibrio “che tenesse conto in particolare delle società e
associazioni sportive dilettantistiche”. Si tratta di migliaia di
realtà, sparse su tutto il territorio che – secondo il Coni – se gravate
da oneri economici, ivi compresi quelli degli operatori in grado di
utilizzare questi defibrillatori, oggettivamente non riuscirebbero a
stare in piedi e sarebbero costrette a cessare le proprie attività o,
comunque, a evadere la previsione legislativa.
Molte società
sportive già sono dotate di defibrillatori. Li hanno avuti a seguito di
donazioni o come risultato di concorsi benefici. Ma il vero rischio è
che questi apparecchi stiano in un angolo a pigliar polvere, perché
nessuno è in grado di utilizzarli. Secondo l’associazione Assotutela,
che ha svolto un’indagine a carattere nazionale, condotta attraverso
interviste telefoniche su un campione di società sportive di nuoto,
calcio, equitazione, pallanuoto e pallavolo, in media circa il 4 per cento
dei responsabili delle stesse comunicano di essersi dotati di
apparecchiature salvavita come i defibrillatori, ma al tempo stesso
dichiarano la propria arretratezza sul piano della formazione di
operatori in grado di utilizzarle.
In Lombardia,
tra le regioni messe meglio, circa l’8 per cento delle società
interpellate è già dotata di defibrillatore, ma solo il 3 per cento di
queste presenta al suo interno personale che sa dove “mettere le mani”.
Percentuale simile in Piemonte e Lazio, leggermente più bassa in Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Marche. E più si scende, più aumentano i problemi. In Calabria
solo l’1 per cento delle società è già a posto, anche se la formazione è
al 3 per cento. Mentre non c’è nessuno che è in grado di utilizzare
questo presidio in Sicilia, in Sardegna e in Campania, dove comunque la percentuale di possesso è molto bassa. “Eppure – ricorda Michel Emi Maritato,
presidente di Assotutela – in Italia, in media, ogni 19 minuti muore
una persona per un arresto cardiaco che potrebbe essere trattato
positivamente attraverso il defibrillatore. Questo nella vita di tutti i
giorni. Figuriamoci sui campi dove si svolgono attività agonistiche”.
Una norma che stabilisse l’obbligatorietà sui terreni di gioco di un
defibrillatore portatile, si era resa necessaria dopo alcune morti
clamorose. Come quella del pallavolista Vigor Bovolenta, stroncato da un arresto cardiaco il 24 marzo 2012 a Macerata, e di Piermario Morosini, deceduto a Pescara il 14 aprile 2012, durante una partita di calcio.
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